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Paolo Vernaglione Berardi

Dal libro della distruzione:

“Ahmed si svegliò. Il sogno era stato feroce. Doveva andare a scuola, attraversare la città deserta e uscire allo scoperto. La scheggia lo aveva colpito in faccia. Era caduto, ma non sentiva dolore. C’era ancora una scuola là? Fino al mese scorso c’era una tenda, poco lontano dalle macerie e i suoi compagni giocavano a gruppi tra la sabbia e il dirupo.

La maestra non poteva più. Molti dei suoi erano sepolti poco lontano, colpiti dal drone. La tenda era stata smontata, uomini in camice bianco avevano raccolto braccia e qualche occhio nella polvere. Ma senza barelle braccia e seni recisi rimanevano tra pozze di sangue seccate.

Freddo all’alba. Ahmed urinò su un muro sbreccato che doveva essere di casa sua. Non ricordava la storia geografica che aveva imparato. Sapeva che era solo, ora. Aveva piovuto. Il secchio era pieno. Si sciacquò la faccia e prese a camminare. Ecco un frammento di sogno! Lo conosceva quel ragazzo che scavava in miniera. Pablo si chiamava e non poteva frequentare. «- Mi padre me golpea. El jefe me golpea». Poi vide che salutava Clara, la ragazza prostituta che sul piazzale sorrideva ai minatori.

Pablo l’amava segretamente, ma quando chiese all’insegnante, quando ancora riusciva ad entrare in una classe, il maestro rinunciò. Troppo nere le mani di Pablo, troppo roca la sua voce. La miniera aveva ingoiato ogni speranza. Il gruppo della comune non c’era più. Pablo studiava da solo. Finalmente sono libero, sognò che gli aveva detto. Ma voleva anche dirgli qualcosa di Kathrina che andava a scuola al villaggio.

Era più grande, voleva un diploma di lingue. Voleva fare l’interprete. Aveva conosciuto un ragazzo a Istanbul e un suo compagno era di Napoli, finito lì per scampare alla strada. Kathrina sapeva il turco che Nino non sapeva. Ma Nino era amico di Lucio che imparava in fretta perché non andava a scuola ma la faceva insieme ad altri, con un prof di italiano che li aveva accolti, alla fine del bosco.

Altro non ricordava Ahmed mentre camminava in fretta tra le pietre. Ma voleva sognare ancora, disperatamente.

Si girò. Dall’altra parte della strada vide i resti di un mercato. Niente cibo, era affamato e niente camion dal valico. Il viso di Amos gli apparve. Amos, dai tratti lividi gli sorrideva. Ma non era vero, era nel sogno e non sapeva perché. Tutto era uguale ora, tutto era sepolto.

L’ultima volta aveva usato l’app per il testo. Correndo pensava che i ragazzi con cui aveva parlato, lassù in Finlandia, con le facce glabre e rosse non erano istruiti come lui che usava chat GPT per copiare le idee di quelli del nord che scrivevano di cultura e democrazia. Non avevano “materie” lassù, vicino al polo, ma avevano molto materiale e stavano al caldo in luoghi colorati.

Liu Shi per arrivare a Pechino ci metteva quasi un giorno; ma non perché abitava lontano, ma perché voleva studiare lontano, lontano dal villaggio, dalla fabbrica di smartphone, dai programmi di formazione. Voleva studiare la storia della Cina, la Terra di mezzo, il celeste impero, la comune. La storia non la geopolitica triste e voleva sapere che cosa era il medioevo in Europa, non il riarmo dell’Unione Europea. Cos’era un continente già lo sapeva. Liu Shi ha l’atlante touch che gli traduce, anche in mandarino se vuole. Ma non vuole. Non vuole essere un migrante cinese nelle terre chiuse che arrivano a Gibilterra.

Uno di loro era immigrato – o lo è ancora? Si chiamava Akim ed era l’unico sopravvissuto al naufragio di 300. Akim parlava poco ma quando diceva “di 300” voleva dire 300 morti in mare. Akim era riuscito a fuggire. Viveva ad Abyei, città contesa. I massacri proseguivano. Poi la carestia, la fame.  – Andiamo via papà. Andiamo via. Ci hanno torturato in Egitto. Ci hanno rubato tutto a nord. Mia madre è stata stuprata. É affogata. Non sapeva nuotare e quando il motore ha preso acqua la barca si è inclinata. Io ero a prua. Ho visto mia madre andare giù e mio padre e mio fratello abbracciati. Sono qui a Helsinki da 1 anno in una casa-famiglia. Voglio diventare informatico, così posso disegnare mia madre e i miei fratelli. Qui si può fare. Non ci sono voti si cammina tra i prati. Mi manca il deserto. Mi mancano le risate. Mi manca il mio corpo africano e mi manca la mia lingua.

Tra due corpi che si sono sfiorati, una prigione. Un’altra tra altri due. E un’altra ancora. – Boa noite, mi dice Miguel. Io sono Rita del Paranal. La figlia india di tutte le acque. Ci hanno distrutti. Ci cacciano e tagliano la foresta. Noi Nahua viviamo là dove ci sono i conuro in estinzione. La foresta ora digrigna i denti e attende le motoseghe. I bulldozer spianano. Ho visto le lacrime della terra. Prima una carezza bastava, adesso i baci dei ragazzi mi sfiorano appena la bocca. Sapevo tutti gli uccelli, una strega potente mi faceva scuola. E non c’era altro. Sentivo il mio corpo e il corpo della terra allora. Sento brividi adesso. Ho scritto ai ministri del dolore. L’esercito ha circondato il villaggio, poi il paese, poi il fiume al confine. Continuano a sparare all’altra riva. Mio padre sapeva navigare. Andava su e giù e alla fine del Rio Negro. Ma non ce la faceva. Dovette vendere un rene per 1000 dollari. Non gli hanno fatto male. Ma ora è più difficile. E non ci sono più scuole nella foresta. La strega non è diventata insegnante ed è stato meglio così.

Ad altre hanno dato di più e io non me lo spiegavo. Poi mio zio me lo ha detto. La signora Spig fa la maestra ma va in quel Centro dove vendono gli ovuli. La signora Spig ci ha spiegato che qui a Calcutta ce ne sono molti di questi centri per ovuli e sperma che poi sono presi dagli europei e dai cinesi e dagli americani. Anche dai russi ricchi che però adesso non comprano più né ovuli né animali: c’è la guerra e non possono più andare al mare in Crimea. Ma neanche a Odessa che è stata bombardata. C’era una scuola giù al porto. Non so se c’è ancora. Pavel fa il giro della piazza e guarda lontano.

  • Ho visto i ragazzi in divisa che andavano al fronte.

La madre di un suo amico gli ha detto che è morto e che gli altri sono prigionieri. In videochiamata Yuri gli ha spiegato che così è un negoziato. A scuola nessuno glielo aveva raccontato. Pavel è arrabbiato, non mangia quasi più e quando vede tornare i soldati dal fronte gli grida – Disertate! Non fatevi ammazzare!

Anche Gina non ne può più. Ogni mattina quando entra in classe ha un attacco d’ansia. Chiede alla professoressa di uscire. Lei la guarda di sbieco e le intima: – Torna subito!

Gina va in un liceo pregiato del centro storico in una storica città che non sa più cos’è la periferia. Là si fanno griglie di valutazione, saperi minimi, la media dei voti e si mettono in pratica gli acronimi più infidi: BES, BVSCO, CLIL, DOP, GLHI, GLI, IVE, LLP, NAI, PTOF. Valutazione, valutazione, valutazione, voti, programma, interrogazioni, voti, programma, interrogatori…devo parlare con tua madre, devi partecipare, di più, partecipare di più…

Le regole, il dialogo, dicono i prof che blablano di percorsi, scolarizzazione, condotta e impegno non costante. Ma guai a sollevare la cattedra al cielo e vedere cosa c’è sotto!

Sotto c’è l’altra parte del tempo, quello di corpi che parlano, amano, inventano. Che sentono quanto la scuola esclude: la guerra, baci e carezze, i saperi di verità, le cospirazioni. Respirare insieme facendo esodo da “la scuola”. Si vuole il confronto, si cerca il dialogo ma è sempre dall’alto in basso, da chi sa a chi viene considerato non sapere. La protesta ormai è solo questione di ordine pubblico; lo dicono i decreti, “le persone hanno paura”, sicurezza, sicurezza, sicurezza; perché no, se il futuro non c’è più? E quindi in certi giorni è bello sentire un’altra voce: – “finalmente vado vestita, truccata, amata non scrutata, libera di non dire, di non essere affranta, di decorare mura e strade, di respirare insieme ad altr*, di non essere guardata, umiliata, amareggiata e ricostruita ogni giorno per 4-5-6 ore seduta, in piedi, seduta, seduta, seduta al tuo posto, cambia posto, non cambiare posto, non cambiare classe, cambia classe; non così, ma, meglio così”…

Max ha fatto scuola a casa laggiù a Bristol Tennesee, quando sua madre ha deciso che gli insegnanti erano poco biblici, per niente evangelici e spiegavano Darwin. Max ora sa che la terra può anche non essere un pianeta schiacciato ai poli, che l’allunaggio era un set TV e che le scie chimiche contaminano il dna; ma sa soprattutto che se qualcuno, per esempio un texmex, oltrepassa il cancello del suo giardino gli spara. Ma lui almeno ne uccide uno, due al massimo. Ha letto Schegge, Max, e davvero non pensava che negli anni ’80 cominciava ad essere come è oggi.

Max è adulto ormai e vorrebbe vivere a Chicago o a Ellei la vita da ragazzo di Chicago tra sesso, droga e rock&roll. Ma sono passati quegli anni e Emy ha lasciato Bristol e lavora al confine, dove non ricorda. Le cose ora si confondono e niente è davvero come avrebbe dovuto essere.

  • Se fossi vissuto in città, pensa Max, avrei abitato fuori. Una vita da commuter bianco. Sempre normale, ogni giorno, senza paura. Avrei guadagnato per quella vita. Per questa, non ce n’è bisogno.

Afghanistan che paese è? É solo Max. Nei suburbia si affittano locali per agenzie bancarie o per slot machine. Non ha mai saputo dov’era la Persia ma sa che là non avrebbe potuto comprare un Winchester né affogare nella ketamina.

Asha abbassò il velo dell’hijab e lesse a voce alta – “Max Strout è entrato al liceo Lincoln di Bristol eludendo la sicurezza e ha cominciato a sparare. 15 studenti sono stati uccisi. Quindi è salito sulla terrazza dell’edificio ed è precipitato. I residenti lo hanno descritto come un giovane normale che non aveva mai dato segni di squilibrio. Accusato di violenza sessuale tre anni fa, era stato assolto. La madre ha dichiarato: mio figlio ha pagato il degrado con la vita. Nessuno lo ha mai considerato. Ho voluto tenerlo lontano dalla corruzione!”. Asha chiuse l’account del giornale locale di Bristol che aveva aperto quando era tornata a Teheran. Nella chat di studi liberi postò “Ciao. Max ha ucciso 15 ragazzi e si è ucciso. Ho vissuto a Bristol e lo vedevo dall’altro lato della strada. Ogni tanto ci salutavamo. Non usciva, faceva tutto a casa. Una volta aveva messo una bandiera con la svastica vicino a quella americana in giardino. Poi l’aveva tolta. Sono triste, ma sono contenta di essere a casa. Vorrei avere questa idea. Faccio un vocale”.

Asha scrisse qualcosa su un foglio. Poi disse allo smarthphone: “Ciao. Mattia, Ella, Seb, Ahmid che continua a sognarci, Pablo appena uscito dalla miniera, Clara piccola prostituta, Kathrina a scuola ora, Nino e Lucio dei quartieri, Akim, Miguel, Rita allieva strega di enormi vedute, Gina, Pavel, tutti sappiamo che si sa e si impara in comune. Che non c’è maggiore e minore, preparati e impreparati. Che gli affetti non sono afflizioni. Che a parlare, sognare, gridare non si impara, c’è. Che al tramonto è il colore del tempo che resta. Che la gioia non è dei luoghi chiusi, dei discorsi alteri, di chi impartisce, ordina e dispone saperi che non servono. Vediamoci alla scuola bombardata. Non sto sognando. É qui. Ciao”.

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