
Il Laboratorio “archeologia filosofica” è nato per provare a rendere operativo il vasto campo di ricerca dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti percorrendo la via aperta da Michel Foucault con L’archeologia del sapere.
Giorgio Agamben ha coniato l’archeologia filosofica indagando i dispositivi di sapere e ha indicato le soglie economico-teologiche della storia occidentale nelle figure dell’homo sacer, della nuda vita, dell’uso dei corpi come problematizzazioni filosofiche più essenziali.
Alla base dell’archeologia c’è la necessità di risalire la distanza tra l’origine e il punto di insorgenza dei fenomeni, laddove la revoca del fondamento ricorre nella storicità delle costituzioni epocali. L’archeologia rivela infatti gli apriori storici che hanno informato le epoche del pensiero per far emergere la verità delle diverse configurazioni assunte dai tempi e dalle forme di vita che li abitano.
In questa circoscrizione “facciamo delle genealogie”, cioè consideriamo per ogni dispositivo di cattura della vita, la determinazione dell’origine, il piano di consistenza e le possibilità di subordinazione, di affezione o di secessione.
D’altra parte la pratica filosofica incontra oggi nuove soglie concettuali nella dissolvenza della tradizione del soggetto della filosofia politica, nell’epoca della distruzione del pianeta e della crisi della civiltà occidentale. In questa situazione storica occupiamo uno spazio di elaborazione in cui indagare gli snodi di saperi, poteri e verità che configurano al presente le emergenze di ciò che è detto e ciò che è scritto. L’archeologia è stata elaborata da Giorgio Agamben nel capitolo di Signatura rerum intitolato Archeologia filosofica. L’archeologia è quel modo di risalire all’archédei fenomeni a partire dal loro punto di insorgenza nella storia; è quella pratica che ci permette di regredire ad un’origine che non si conosce ed è impossibile da collocare nel tempo, e che tuttavia significa idealmente la provenienza dei fenomeni.
Nietzsche scopre l’illusione dell’origine come principio, come fondamento e come essenza della storia. Nella “seconda considerazione inattuale”, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, distingue tre modi di intendere la storia: monumentale, antiquaria, critica. La storia monumentale spinge all’azione, perchè propone modelli, maestri e consolatori. La storia antiquaria è amata da chi “persevera nel tradizionale”, preserva le radici e accumula fatti come reliquie. La storia critica è praticata da chi si erge a giudice delle ingiustizie e porta la storia in tribunale per distribuire condanne, dichiarare le menzogne del dominio e “darsi un passato a posteriori”.
Benchè per Nietzsche la storia critica sia da preferire rispetto alla considerazione monumentale e antiquaria, l’eccesso di storia, di cultura, di “interiorità” e la pretesa di “oggettività”, sono sintomi di quelle finzioni corruttrici con cui si mantiene la dominazione. La genealogia rovescia queste modalità storiografiche e trasforma il monumentale in rovina, l’antiquario in dispersione, la storia critica in potenza dell’avvenire.
Michel Foucault nella Prefazione a Le parole e le cose introduce il termine archeologia per designare un insieme di ricerche a partire da una scansione storica degli eventi che distingue un’epoca antica da un’epoca classica (XV-XVII sec.) e da un’epoca moderna (fine del XVIII) che continua fino al XX secolo. L’archeologia è sia un metodo che un dominio di ricerca dei saperi “che non sono in prima istanza conoscenze che si trovano nei libri, nè teorie, ma ciò che rende possibile ad un certo momento l’apparire di una teoria, un’opinione, una pratica” (Foucault 1966).
A questo livello bisogna ruotare intorno alla nozione di epistème che non è la somma delle conoscenze o una grande teoria generale soggiacente, ma “è uno spazio di dispersione, un campo aperto e descrivibile all’infinito di relazioni” (1968).
L’archeologia indaga le rotture, le discontinuità e le dispersioni per trovarvi gli a priori storici per i quali si costituiscono i rapporti di sapere-potere nelle diverse epoche. La ricerca degli a priori storici fa emergere le condizioni di possibilità degli eventi: “ritrovare ciò a partire da cui conoscenze e teorie sono state possibili, in base a quali spazi d’ordine si è costituito il sapere…”. L’a priori storico manifesta dunque il modo di apparizione delle costellazioni di sapere-potere.
Nell’Archeologia del sapere (1969) si tratta di indagare le formazioni discorsive (ciò che è stato detto e ciò che è stato fatto in un presente appena trascorso o in un passato immemoriale) al livello dell’archivio. Cioè cercare gli insiemi di enunciati che producono discorsi che si costituiscono secondo regole e criteri di esclusione.
A differenza della storia l’archeologia non rileva le continuità, nè gli avvenimenti di una storia universale ma gli eventi singolari, indicandone le differenze; non un soggetto della storia, o l’identità di un autore o la coerenza di un sistema ma le dispersioni, i luoghi dell’anonimo, le posizioni da cui si costituisce l’ordine del discorso. “L’archeologia non è nè completamente una teoria nè completamente una metodologia”. E’ piuttosto “un tentativo di identificare il livello sul quale devo situarmi per far sorgere questi oggetti che avevo manipolato da molto tempo senza tuttavia sapere se esistevano, e dunque senza poterli nominare” (id. 1971).
Nel saggio Nietzsche, la genealogia, la storia (1971) Foucault indica il modo in cui è da intendere l’arché. L’origine non essendo un’essenza da ritrovare, nè un punto cronologico del passato, nè un fondamento metafisico, non può essere cercata in analogia ad un’immagine del presente. Non è l’inizio alto che fa credere che al principio si trovi la perfezione; nè che essa è il luogo della verità. La genealogia è funzione dell’archeologia perchè si incarica di rilevare le provenienze e le emergenze dei fenomeni. Provenienza è seguire la trafila della dispersione in cui si dà il fenomeno. Provenienza è la direzione, l’orientamento verso l’origine da risalire al presente. Questa origine è replica del “già dato” nel divenire.
Emergenza è il movimento della nascita, il principio e la legge singolare di un’apparizione. Letti genealogicamente i fenomeni storici mostrano il gioco delle forze, i conflitti tra forze, i rapporti di forze inerenti ad ogni configurazione di sapere-potere.
La genealogia rileva la storia effettiva, cioè la storia delle lotte, dei corpi e delle perdite di identità che non sono ricondotti a continuità o sviluppi progressivi, ma al caso. La genealogia è prospettica perchè denuncia la posizione da cui si parla, si opera, si domina o si è dominati. La genealogia è contromemoria, un dimenticare e rilevare gli effetti di costruzioni storiche sui soggetti e sulle pratiche di verità. La genealogia è l’indagine dei “saperi assoggettati accoppiati alle conoscenze erudite…É l’insurrezione dei saperi assoggettati contro gli effetti di potere delle scienze, sia nell’Università, o in un apparato pedagogico, o nella psicoanalisi o in un apparato politico come nel caso del marxismo” (1976).
Una ricerca genealogica è tale se indaga “una forma di storia che rende conto della costituzione dei saperi, dei discorsi, dei domini di oggetti, senza doversi riferire ad un soggetto, che sia trascendente in rapporto ad un campo degli avvenimenti o che corra nella sua identità lungo la storia” (1977).
Fare una genealogia è collocarsi tra i rapporti di potere e gli stati di dominazione. Questo luogo è la governamentalità, cioè l’insieme delle tecnologie per governare in famiglia e nelle istituzioni. Attraverso queste tecnologie si stabiliscono e si mantengono gli stati di dominazione (1984).
Ogni archeologia comporta un’anarcheologia, cioè la destituzione della necessità del potere. All’inizio del corso Il governo dei viventi Foucault chiede “che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza e al legame con la verità con cui egli si trova involontariamente annodato?…essendo dati la mia volontà, decisione e sforzo di sciogliere il legame che mi lega al potere, che ne è allora del soggetto di conoscenza e della verità?…E” un atteggiamento che consiste innanzitutto nel dirsi che nessun potere va da sè, nessun potere, qualunque esso sia, è evidente o inevitabile, nessun potere, di conseguenza, merita di essere accettato fin dall’inizio del gioco. Non c’è una legittimità intrinseca del potere…” (1979-1980).
Enzo Melandri, grande filosofo dimenticato del secondo Novecento ne La linea e il circolo pensa l’archeologica laddove guarda alla storia della metafisica come storia delle problematizzazioni. L’archeologia dei problemi filosofici fà si che emergano le soglie storiche in cui i fondamenti divengono instabili, problematici, ipotetici. L’archeologia è una sintomatologia. Laddove un pensiero è investito da un principio che gli si oppone, convive con esso in una zona di indistinzione fino al momento della rottura del paradigma in base al quale è stato formulato.
Il lavoro archeologico sulla storia della metafisica consiste nell’esibire l’opposizione tra una struttura simbolica significante e un correlativo analogico non simmetrico che chiarisce i luoghi in cui le filosofie diventano problemi. Qui l’archeologia è il livello del discorso quando la sua logica diviene analogica. La storia della metafisica sarà allora visibile come storia degli smottamenti che una dialettica (non hegeliana ma platonica) denuncia.
Giorgio Agamben assume la portata di questo sguardo ed elabora l’archeologia filosofica. Nella definizione c’è la genealogia del metodo. Kant ha posto il problema della costruzione di una storia filosofica della filosofia che per sè non può esistere perchè non potrebbe trovare conferma in “fatti”
realmente accaduti. Un’archeologia di questo genere risale a fenomeni (il pensiero) che non sono ancora accaduti; dunque ad oggetti possibili; d’altra parte essa è una scienza delle rovine perchè ogni arché del pensiero è qualcosa che “avrebbe potuto o dovuto darsi”( Agamben 2008).
La ricerca archeologica indaga quella che Georges Dumezil ha chiamato la faglia di ultrastoria in cui preistoria e storia spartiscono i loro campi rispettivi a partire dalla distante connessione di una storia reale e di una storia virtuale. La faglia di ultrastoria coglie l’arché dei fenomeni in una zona di indistinzione tra reale e virtuale in cui subiscono le partizioni (p. es.: “gli indoeuropei”, popolo non reale ma possibile, da cui sarebbero discese alcune popolazioni asiatiche e europee).
Paul Ricoeur ha definito un’archeologia del soggetto in riferimento alla psicoanalisi di Freud, quando conscio e inconscio si dividono e l’inconscio assume la forma del rimosso. Ma mentre la regressione dell’analisi (e di qualsiasi procedura e manovra nella e sulla psiche) non va al di là della biforcazione delle funzioni psichiche, e dunque rimane all’interno della soggettività restaurando l’identità, l’archeologia filosofica regredisce davvero ad uno stato dionisiaco che non deve e non può essere “razionalizzato”. La scommessa dell’archeologia è la dispersione del soggetto, che sia individuale, della storia o delle classi sociali. “L’arché dell’archeologia, è ciò che avverrà, che diventerà accessibile e presente, solo quando l”inchiesta archeologica avrà compiuto la sua operazione. Essa ha dunque la forma di un passato nel futuro, cioè di un futuro anteriore” (id.).
L’a priori storico dell’epoca del bio-potere è il governo dei corpi e della popolazione. Nel capitolo finale di La volontà di sapere Foucault introduce la nozione di bio-potere in riferimento a quella tecnologia che, a differenza del potere sovrano che esercita il diritto di vita e di morte, fa vivere e respinge nella morte. “Il fatto di vivere…passa nel campo di controllo del sapere e d’intervento del potere.” Bio-politica è ciò che “fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana.” (1976).
Il bio-potere è tipico delle società di disciplina che si trasformano in società di controllo integrando le tecnologie disciplinari (griglie di suddivisione della popolazione, dispositivi statistici e securitari, misure di igiene pubblica, contenimento e detenzione delle categorie di popolazione “a rischio” etc).
La biopolitica è rilevata da un’archeologia che esibisce i rapporti di potere in una storia del presente. Intorno alla metà del XVIII secolo in Europa si estende una nuova tecnologia di governo della popolazione, possibile in base alla razionalizzazione del territorio secondo il criterio costi-benefici. Questo esito deriva dall’introduzione del calcolo e di strumenti statistici con la finalità di stabilizzare la produzione economica, mettendola al riparo da epidemie, carestie, crisi agricole. Le monarchie assumono il liberalismo che è in prima istanza una tecnologia di razionalizzazione delle risorse nazionali.
Progressivamente, fino agli anni Trenta dello scorso secolo le tecnologie di bio-potere si trasformano, e da modi di governo in capo allo stato nazionale che regolava gli scambi e la concorrenza, diventano strumenti per limitare l’intervento dello stato nell’economia ed estendere la sfera di influenza del libero mercato. Una soglia ulteriore viene attraversata quando la governamentalità confligge con le istituzioni dello stato sociale che contendono ai mercati e ai privati il controllo dell’economia.
Al contempo lo stato deve assicurare la “presa” sulla vita dei cittadini con norme che sospendono lo stato di diritto e introducono uno stato di eccezione permanente. Laddove lo stato di eccezione diviene normale la vita è catturata in una zona di extra-diritto. Nello stato di eccezione le norme non sono abolite ma permangono in stato di non vigenza. Sono emanati provvedimenti in cui sbiadisce la differenza tra democrazia e assolutismo. La struttura dello stato di eccezione è “essere-fuori e tuttavia appartenere” (Agamben 2003).
Un’archeologia dei dispositivi di governo mostra i rapporti tra stato di anomia e stato della legge. Mostra cioè la zona “in cui si situa un’azione umana senza relazione con la norma – coincide con una figura estrema e spettrale del diritto in cui esso si scinde in una pura vigenza senza applicazione (la forma-di- legge-) e una pura applicazione senza vigenza: la forza-di-legge.”(id.).
L’inchiesta genealogica dello stato d’eccezione mostra che l’insieme dei rapporti tra anomia ed esercizio del potere sono raccolti nell”identità di un sovrano che “si fa” legge. “Il sovrano, in quanto è una legge vivente, è intimamente anomos. Anche qui lo stato d’eccezione è la vita – segreta e più vera – della legge”. In questa temperie il governo dei viventi è l’esercizio del singolo che viene incitato, consigliato, accompagnato a farsi “imprenditore di sè stesso” e ad ottimizzare abilità, affetti, capacità e relazioni
secondo il principio di trasformazione dell’essere umano in “capitale umano”. In quanto forma di vita il neoliberalismo è un dispositivo di governo della popolazione di cui una storia del presente si incarica di indagare le faglie, le aperture, i blocchi.
L’archeologia mostra dunque le possibilità di una scienza dei dispositivi, cioè di quel sapere in cui sono “presi” i soggetti. I dispositivi sono insiemi di enunciati, regimi di visibilità, documenti, registri, pratiche, regole di applicazione che definiscono azioni e operazioni in un certo periodo storico.
Gilles Deleuze aveva indicato la natura dei dispositivi come intesi da Foucault. Essi sono “una matassa, un insieme multilineare composto di linee di natura diversa” che circoscrivono sistemi in perenne squilibrio (Deleuze 1988). Questa definizione implica le variazioni e le trasformazioni delle linee di articolazione del dispositivo. Un dispositivo opera in un doppio movimento, dell’archivio e del divenire. La forma dell’archivio (dei saperi, delle istituzioni, dei soggetti) e le linee di fuga. “E’ quanto Nietzsche chiamava l’inattuale, quel divenire che si biforca con la storia… Non predire ma essere attenti allo sconosciuto che bussa alla porta”. I dispositivi, prima di essere degli apparati, o degli ordigni, o delle macchine, sono insiemi eterogenei di enunciati e di visibilità: documenti, registri, verbali, progetti architettonici, audiovisivi. Possono divenire apparati di cattura in certe epoche storiche, macchine in certe altre. Nel XX secolo per esempio diventano macchine desideranti, per lo più prodotte dalla psicoanalisi, mentre nel XVII secolo erano macchine anatomiche, macchine di rappresentazione, ma in epoche passate erano macchine da guerra nomadi, o macchine di sovranità imperiale, come hanno dimostrato Deleuze e Guattari ne L’antiEdipo e in Millepiani. Il principio è quello di assemblaggi storico-geografici, disposizioni di territorio che viene sottratto o appropriato da gruppi di popolazione, da forze di interessi, da prevalenze e desistenze.
In riferimento all’oikonomia teologica Agamben ha delineato una genealogia del dispositivo che “nomina ciò in cui e attraverso cui si realizza la pura attività di governo senza alcun fondamento nell’essere” (2006). Questa genealogia si sviluppa dal significato attribuito al termine da Hyppolithe, ripreso da Foucault, e dalla nozione di apparato come congegno tecnico in Heidegger. Prosegue quindi nell’estensione dei dispositivi a tutto ciò che ha “la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”(id.)
Ogni dispositivo implica un processo di soggettivazione. L’attuale soggettivazione tramite devices digitali e connessione in rete passa per una desoggettivazione che identifica il tipo generalizzato del cittadino- consumatore. Il bloom “che esegue tutto ciò che gli si fa fare.” (id.). Il gruppo Tiqqun in Una metafisica critica potrebbe nascere come scienza dei dispositivi… affermava che “Il potere parla di “dispositivi”: …dispositivo educativo, dispositivo di sorveglianza… Questo gli permette di dare alle sue incursioni un’aria di precarietà rassicurante. Quindi il dispositivo, una volta che il tempo copre la novità della sua introduzione, rientra nell’ “ordine delle cose” ed è piuttosto la precarietà di coloro la cui vita vi passa attraverso che diventa notevole.” (Tiqqun 2001).
Il fatto rilevante di questi giorni è che “presi singolarmente, i dispositivi sono altrettanti baluardi drizzati contro l’evento delle cose; presi in massa, sono la neve carbonica che SI spande sul fatto che ogni cosa, nella sua venuta in presenza, porta con sé un mondo. Infatti è come dispositivo che ci appare ogni dettaglio di un mondo che ci è divenuto estraneo, precisamente, in ciascuno dei suoi dettagli.” (id.).
Se “mettere a distanza il mondo dato, finora, è stato il mestiere della critica…la critica credeva che, fatto questo, la messa fosse finita…”. L’archeologia opera allora nella distanza tra il mondo e sè stessi, non per far intendere che si è altrove, ma per essere effettivamente qui. La distanza che introduciamo è lo spazio di gioco dei nostri gesti.
La posizione della filosofia
La questione che urge più di ogni altra oggi riguarda la posizione del filosofo. Ciò che l’antichità e in qualche modo l’epoca classica consegnano all’oblìo è il fatto della filosofia come ricerca della verità. Ma questa domanda nel corso della storia dell’Occidente ha cambiato forma, modi, istanze.
Ma soprattutto ha cambiato statuto e mentre la filosofia, a partire più o meno dalla metà del XVIII secolo, è divenuta una disciplina accademica, con i suoi regimi, le sue specializzazioni, i suoi centri di potere e
criteri di valutazione sedicenti oggettivi, – mentre accadeva questo, la filosofia è divenuta marginale, affatto importante, è divenuta comunicazione, entertainment, consulenza, gioco tv.
Ora, si potrebbe dire che la filosofia è sempre stata questo, verità contro il potere, sapere marginale, difficile, accademico per selezione naturale etc. Ma d’altra parte la trasformazione decisiva del filosofo o del filosofo politico c’è stata quando la ricerca della verità ha coinvolto il soggetto. E’ con la nascita del soggetto, ed è con la comparsa del soggetto-filosofo, da Cartesio in poi, che le cose sono cambiate e la metafisica ha continuato ad avere una storia che è stata la vicenda del filosofo di professione, del precettore o del funzionario dell’umanità…
La domanda dell’archeologia filosofica inizia da questa costituzione del soggetto, con un’identità immutabile, che ha di fronte un mondo da conquistare, una natura fatta di oggetti, un dominio da imporre. Ciò corrisponde ad una forma di vita che per quanto contemplativa, o riflessiva o meditativa, appartiene al soggetto-filosofo.
All’inizio del Corso del 1979-’80 Del governo dei viventi Foucault traccia un diagramma storico-concettuale dei diversi modi in cui si è realizzato il rapporto tra sapere, potere e verità. Lentamente i modi di esercitare e di concepire il potere sono divenuti modi di praticare ed esercitare il governo dei viventi. Qual’è la differenza? Consiste nell’interpretazione del potere. Ad una lettura del potere tramite l’ideologia si è sostituita una lettura dei rapporti di dominazione tramite la governamentalità, cioè la gestione amministrativa della vita. Da qui una serie di dispositivi di cui conosciamo le forme e i modi di operare. Ma è importante il fatto che il governo è reso possibile perchè, dice Foucault, si è costituìto un soggetto di verità. Dal dire-il-vero socratico al parresiasta che dice il vero del potere in Platone, alle pratiche di veridizione, e dalla confessione cristiana fino al cogito e al soggetto del sapere assoluto, la questione della verità si è posta perchè si è costituìto un soggetto che è stato ed è tutt’ora effetto di regimi di veridizione. Certe pratiche di veridizione, dalle filosofie stoiche ai cinici, al cristianesimo e alle filosofie moderne, hanno avuto come bersaglio l’animale razionale, il cittadino, la persona, l’individuo, fin quando nelle filosofie moderne si sono costituite in forme in cui il soggetto si lega alla verità attraverso pratiche istituite dalle scienze umane.
Alla fine dell’ultima lezione del corso L’ermeneutica del soggetto (1981-’82), Foucault dice, a proposito della Fenomenologia dello spirito, – che è stato il vertice della filosofia perchè ha costituito un soggetto per il sapere assoluto.
Ciò d’altra parte non vuol dire che siamo ancora nell’epoca del soggetto; c’è una storia della tekhne che Heidegger ha pensato per cui riconosciamo di essere collocati in una generazione diversa, e quanto più lo spettacolo del soggetto e del soggetto-filosofo è proliferato, tanto più si manifesta come sintomo della sua scomparsa, in quello che Nietzsche aveva previsto e voluto come l’oltreuomo.
Ma forse per l’archeologia, a partire da questa storia che è la storia del fondamento metafisico, la storia della sostanza, è necessario percorrere la distanza e l’insieme dei rapporti tra l’origine e il punto di insorgenza del fenomeno della verità, sia in rapporto a ciò che è vero sia nella contrarietà al vero. Per questo la domanda sul posto della filosofia può essere formulata chiedendosi che cos’è e cosa possa essere oggi una forma di vita filosofica.
C’è una genealogia della forma di vita filosofica che Foucault ha studiato e raccontato in maniera mirabile. Se riprendiamo quelle analisi, abbiamo almeno una direzione di ricerca, un laboratorio in parte operativo. In questi ultimi anni Foucault è stato riletto, è entrato nell’accademia, ma in questa intensa e sintomatica ripresa delle descrizioni della “cura di sè”, della “parresia”, dell’etica e dell’estetica dell’esistenza”, la finalità è tutt’altro che sovversiva e non mette affatto in questione il governo della vita.
Quello che invece ci interessa è risalire ai rapporti tra potere e verità e sollevare la questione dell’eventuale ricostruzione di una storia della verità, essenziale in rapporto al soggetto e alla filosofia.
La differenza tra verità e vero è stata ed è tutt’ora cruciale. Ma in questione è il senso della forma di vita filosofica, sia in rapporto ad altre forme di vita che in rapporto al posto che la filosofia e il filosofo occupano o potrebbero occupare, ammesso che una tale posizione sia ancora praticabile.
Nella lezione del 16 febbraio 1983 del corso Il governo di sè e degli altri, considerando la Lettera VII e il rapporto tra filosofia e politica in Platone, Foucault insiste sul fatto che il filosofo può o meno essere utile al tiranno, può o meno avere rapporti conflittuali con il potere e nell’esperienza di Platone la vita
filosofica, nel distacco dal potere, e nel rischio della vita rispetto al potere, finisce per essere l’unica vera vita che, manifestando la verità del potere ne revoca il fondamento.
Ciò proviene dal fatto che “il compito della filosofia” che in qualche modo coincide con il reale della filosofia, non è quello di essere soltanto logos, ma anche ergon. Cioè la vita filosofica consiste nella pratica della verità, del dire il vero che non è mai solo un dire, un dichiarare la verità vera, ma consiste nel praticare il vero. Questa è la realtà della filosofia.
Il reale del filosofo consiste nel praticare il sapere della parresia verso coloro che vogliono ascoltare. Il cerchio dell’ascolto è la condizione della verità come pratica di veridizione. La seconda condizione di verità della filosofia consiste nel mostrare. Mostrare che la filosofia è un insieme di pratiche, di pragmata, tra cui c’è la pratica di manifestare la verità del potere, l’anarchia del potere come Agamben ha asserito, cioè mostrare l’assenza di fondamento di qualsiasi forma di potere, anche il più democratico o liberale. Infine, terza condizione di verità della filosofia è che “la scelta della filosofia deve esser fatta una volta per tutte”. Ciò significa che si tratta di un “cammino”. La pratica della verità a cui ci si lega, diremo che è nell’errare continuo che è la ricerca continua della verità. E questo è il rischio e la scommessa continua del soggetto.
Si tratta del “cerchio di sè stessi” cioè della costituzione del soggetto-filosofo, che però non è e non può essere il filosofo di professione, ma, al contrario, dev’essere la continua, faticosa, destituzione presso di sè del soggetto, la pratica del rischio del sè che in origine è propria della forma di vita filosofica. Dire il vero come pratica della verità, mettere a rischio la vita nel dire la verità del potere, costituirsi come soggetto nell’errare, nel dissolversi dell’identità personale.
Nella lezione del 2 marzo del corso Il governo di sè e degli altri, Foucault propone uno “sguardo dall’alto del pensiero antico” che mostra tre ambiti di elaborazione della verità in tre questioni: qual’è il luogo del dire il vero? Come si articolano i rapporti tra verità e coraggio? Infine di quali verità si ha bisogno per dirigersi e per dirigere gli altri?
La questione della conduzione delle anime è in realtà la condizione stessa di apparizione della verità in rapporto al vero, all’etica e al governo politico. Ora, la scoperta che Foucault evidenzia è che ogni discorso di verità è una pratica; che ogni verità è comparsa a partire da un gioco linguistico e che ogni ontologia viene analizzata come una finzione.
La questione della verità è dunque fin dall’inizio quella della trasvalutazione dei valori. La tekhné del logos
è un affare strategico. Conoscenza della verità e pratica dell’anima “fanno” il discorso vero.
Possiamo allora forse chiarire il senso della forma di vita filosofica come estetica dell’esistenza. Nella lezione del 29 febbraio 1984 del corso Il coraggio della verità la stilistica dell’esistenza non è la messa in pratica di una metafisica dell’anima. Nel cristianesimo ad esempio “l’esistenza dell’asceta non è la stessa di chi vive come tutti gli altri; l’esistenza del laico non è quella del chierico, l’esistenza del monaco non è quella del clero regolare o secolare ecc.”.
Anche il contrario è evidente, cioè stili di esistenza che rimangono stabili (ad esempio lo stoicismo) in riferimento a diverse metafisiche dell’anima. Il cinismo in questo senso è esemplare. Il cinismo è “una forma di filosofia nella quale la maniera di vivere e il dire-il-vero sono direttamente, immediatamente, legati l’uno all’altra.”.
Si tratta di quella forma di vita che è condizione di possibilità del dire il vero. “Il cinico è l’uomo con il bastone di Diogene, con la bisaccia, il mantello, che cammina con i sandali o a piedi nudi, l’uomo con la barba lunga, l’uomo sporco.”. É anche l’uomo errante, “privo di legami, che non ha casa, nè famiglia, ne focolare, nè patria…ed è anche l’uomo che vive di accattonaggio”. Il cinismo fa della vita una manifestazione della verità. Il gesto della verità.
La forma di vita cinica è insomma, nell’essenziale, il prototipo dell’estetica dell’esistenza e di altre forme di vita che si costituiscono in rapporto alla verità. Un primo veicolo di traduzione del cinismo è stato l’ascetismo cristiano e da esso dal XIV al XVIII secolo proviene la vita mistica; un secondo veicolo di traduzione è stata la forma di vita come “scandalo della verità” del militantismo politico e dei movimenti rivoluzionari; un terzo grande veicolo è la vita da artista.
La vita filosofica è distinta e in relazione storica con la vita monastica, eretica, mistica; lo è con la forma di vita rivoluzionaria e con la vita d’artista. Il punto di coincidenza di questa forma è la costituzione di un’esistenza che, come Agamben ha chiarito, si determina nell’indistinzione di vita e forma.
In questo senso anzitutto la vita monastica è quella forma di vita che nel distacco dal mondo, che è la forma più alta di penitenza, di rinuncia a sè, è via di perfezionamento. La forma di vita monastica è stata quella forma di vita che attraverso il perfezionamento continuo cerca di giungere alla “conoscenza vera di ciò che è”.
Il rapporto tra essere e verità, attraverso le pratiche del dire il vero a sè stessi e ad altri e attraverso le pratiche rituali di veridizione, costituisce l’ideale della vita monastica che, ancora con Agamben, era la vita comune vissuta nella sospensione del diritto e nell’indistinzione di vita e regola. L’obbligo di cercare in sè stessi la verità di ciò che è comporta la decifrazione della verità superando tutti gli ostacoli, e comporta la manifestazione della verità mediante un certo numero di atti verso se stessi e verso gli altri (riti di penitenza, confessione, direzione spirituale ecc.).
Queste pratiche sono sì religiose ma prima di tutto filosofiche. Da Pitagora a Seneca, Cicerone, Marco Aurelio, prima che per San Cipriano e Tertulliano o Girolamo, vita perfetta e conoscenza dell’essere coincidevano.
Ora, a differenza che nelle filosofie antiche, in cui la ricerca della verità dell’essere comportava un’elaborazione verbale, nella forma di vita cristiana troviamo “qualcosa di molto massiccio, di molto rozzo se volete, di molto teatrale”, dice Foucault nella lezione del 29 aprile 1981 del seminario di Lovanio Mal fare, dir vero.
Ciò che viene mostrato è la verità del soggetto stesso, nell’intreccio della conversione e della penitenza. I monaci che riprendono questa forma la elaborano “attraverso tutta una griglia verbale straordinariamente complicata, analitica, che apriva al “rapporto tra sè e sè, che nell’antichità era sconosciuto”.
Questo rapporto tra soggetto e verità che ha sempre siglato la filosofia, anche in quei filosofi che lo hanno negato, risente della destituzione della metafisica operata, o meglio iniziata da Nietzsche; e risente dell’insieme delle problematizzazioni che ne sono seguite. La resa della dialettica e in qualche modo la trasformazione della dialettica e della fenomenologia in archeologia, a partire dai temi della storia della metafisica elaborati da Enzo Melandri ci offrono la traccia di questo continuo laboratorio.
Allora quando la filosofia moderna è una pratica che è tale come esteriorità in rapporto ad una politica; quando è critica in rapporto ad un campo di illusione; quando comporta un’ascesi, cioè cioè autocostituzione del soggetto in vista della sua destituzione. Quando accade tutto questo, questi caratteri la avvicinano, senza che la si attualizzi, alla filosofia antica.
Ecco che allora il “metodo” archeologico permette sia di manifestare la verità del pensiero, sia di fare delle estrapolazioni, che del resto in Nietzsche erano lancinanti: basta con il soggetto, basta con lo storicismo, basta con la morale, basta con la sostanza che non diviene! Per questo Foucault traccia le origini di una storia della verità che può essere affrontata solo dalla filosofia.
Tutte le pieghe epocali dell’essere, prima che teorie raccontano la storia di ciò che è accaduto in Occidente e di cui la genealogia ha disegnato i conflitti, le lotte e le sconfitte. Una filosofia genealogica è tutto questo ed è quella “storia minore”, o quel “pensiero minore”, quel pensiero sovversivo che Deleuze e Guattari hanno aperto e che, per quanti sforzi si facciano oggi, e per quante versioni edulcorate e comprensive e partecipative si tentano, rimane irriducibile all’accademia, all’insegnamento, alla disciplina.
Perchè dunque un’estetica dell’esistenza? Si risponderebbe perchè è un certo stile di vita in cui c’è una corrispondenza, una “omofonia” tra il dire il vero e il modo di vivere; ed è un modo che ha già rotto con le convenzioni del mondo, che sospende i dispositivi di sapere-potere e pratica una vita “altra” rispetto alla soggettività.
In realtà tutti questi profili possono e hanno fatto parte della vita filosofica, ma la condizione di questa forma di vita è la “vera vita”. La vera vita è “la vita non dissimulata; è poi la vita altra, cioè irriducibile a tutte le altre vite; inoltre è la vita “senza mescolanze”, cioè senza legami, senza dipendenze”; ed è la vita povera, con tutte le difficoltà di senso e di attribuzione che ha avuto nella storia. Infine “il bios philosophicos…è l’animalità dell’essere umano raccolta come una sfida, praticata come un esercizio, gettata in faccia agli altri come uno scandalo”.
Tutti questi elementi, trasposti in diversi stili di vita, indicano che la vera vita dei cinici è stata rovesciata, anzitutto dal cinismo stesso, nella “vita altra”. E la “vita altra”, sia come scandalo, sia come aspirazione, sia come passione è stata l’oggetto, il fine e il contenuto di quella che genericamente è la forma di vita filosofica con le conversioni, le rivoluzioni e la vita d’artista.
Oggi la “modalità parresiastica” è scomparsa, sostituìta per lo più da pretese di maestri di verità che prendono parola nello stato d’eccezione; d’altra parte la parresia politica mostra il volto dell’informazione e della mediazione social; e la pratica delle arti non comporta più la forma di vita d’artista.
La domanda della filosofia può allora essere quella che riguarda i rapporti tra la verità dell’epoca e il pensiero. Cosa succede quando forze come intelletto, volontà, affetti, incontrano il silicio (componente essenziale dei devices digitali)? Che la realtà del mondo si fa imposizione. Che il mondo si deteriora, che entra in rovina. Questo divenire è nello sguardo della terra dallo spazio che mostra il pianeta devastato. Si tratta dunque di chiedersi come abitare le rovine. Quali possibilità nel deserto? Quali stili di vita? Quale esilio, cioè in quali modi, di fronte all’astrazione, il pensiero può essere vita?
Forse una filosofia che cerca di comprendere i dispositivi di sapere-potere e le forme di soggettivazione invalse, in rapporto a verità parziali spacciate per vero, non può che riprendere il luogo dell’archeologia nella povertà dei mezzi e nella pratica di una parola altra.